giovedì 25 dicembre 2014

Col tempo che vuole

Quando le prime margheritine fioriscono, quando con la calura ti viene voglia di una fetta di anguria, quando i melograni si aprono sgranando i loro denti all'aria, quando...ah la neve col mosto cotto! allora la mia infanzia mi viene a trovare. Arriva incedendo piano, sembra che conti i passi, come giocasse a campana e, solo casualmente, si ritrova davanti alla mia porta. Io, invece, so che é biricchina, che quando arriva, anche se mi sorprende ogni volta, lei lo ha deciso molto tempo prima; é solo quel suo modo di procedere che le fa perdere tempo lungo la strada. Si attarda distratta dalle cose che incontra, i suoi occhi curiosi sono attratti dalle miriadi di cose che riescono a percepire mentre mi si avvicina. Io sono cambiato negli anni e lei, mi studia, cerca di comprendere quale sia il modo migliore di avvicinarsi a me, il momento più opportuno. Spesso la trovo seduta sul divano davanti alla televisione, aspettando che finisca il notiziario, dal quale mi vede preso. Altre volte mi accorgo che è da tempo seduta dietro di me sulla bici, mentre io e il piccolo Luca cantiamo a più riprese le canzoni che inventiamo durante i nostri giri, per le strade della campagna. Altre volte ancora la trovo quando esco a ritirare la posta che é indecisa se suonare il campanello o no. Sembra che abbia paura di entrare e trovarmi impegnato in qualcosa che non mi concede il tempo per lei.  A volte sembra che non osi disturbarmi per il timore che io sia in casa con qualcuno che lei non conosce, e se io sono impegnato? se io sto facendo qualcosa di importante? se il bimbo dorme? e se qualcuno pone delle domande su di noi, cosa rispondere? Così rimane in surplace davanti al mio uscio senza trovare il coraggio di entrare. Ma io so, io sento la sua presenza, il suo respiro, il suo fiato corto e indeciso ed allora poso il libro che sto leggendo, rimando qualcosa che può attendere e le apro. Mi accorgo che la mia infanzia teme, che essendo cresciuto, io non abbia più tanto tempo, per intraprendere con ella, quei viaggi fantasiosi che ci portano a rovistare nella memoria per ritrovare il bandolo comune che ci consentirà di riprendere i ricordi di quando eravamo ancora insieme.Oh si che é possibile che a volte succeda di non riuscirci; e quando avviene così, ci avvitiamo spesso in discordanze che non portano a niente. Così, dopo esserci stancati con tentativi di accordarci su un particolare che non concorda, lasciamo cadere la discussione ed io torno alle mie incombenze, che mi riprendono, mentre lei silenziosa si ritira. Spesso però, quelle volte che i nostri fili combaciano, che festa! si torna bambini insieme a ricordar ogni cosa! Lo trovo sempre il tempo per lei, non lo sa che temo che non mi venga più a trovare. Anche solo diradasse le sue visite, la cosa non potrebbe che farmi scontento. Non sa quante volte sono lì che chiudo gli occhi e l'aspetto. Oh no! non è che dormi, é che mi preparo, libero la mia mente affinché lei mi trovi pronto a prendere avido, quello che mi porta. Ah! quante volte cerco di indovinare cosa avrà per me questa volta, dove avrà scovato quello che mi racconterà. Non sa quanto io sia curioso di capire dove va a rovistare per trovare certe cose che io non ricordo più. Certe volte mi sorprende con ricordi che non sembrano affatto miei. Glielo dico, ma lei sorride dolce, ma non cede di un millimetro, quello che mi porta ogni volta é di certo mio.
- Sai cosa ti ho portato stavolta?- mi chiede increspando gli occhi, come se avesse paura che quello che mi dirà, insieme alla gioia, mi possa rendere triste, più fragile.
-Cosa?- le chiedo sapendo che sarà per forza qualcosa un pò dolce e un poco amaro.
- Il profumo della tua terra arata di fresco.- mi dice mentre cerca di scorgere di sottecchi che effetto mi fa.
- e poi ti porto le fuscelle di ricotta fresca di Francesco l'abruzzese, quello che si accampava alla "Posta" durante la sua transumanza-
Ah! l'odore della mia terra arata di fresco...la terra nera che sembrava fumare come un pane caldo, quando al mattino presto, il vomero della francese la rigirava sottosopra...potevi scorgere da lontano i vermi arancione sorpresi e messi a nudo dentro le zolle, ne indovinavo la presenza mentre seguivo l'aratro che il cavallo tirava allegro. Le allodole impazzivano nei loro voli verticali verso il sole e quelle strane discese a picco quasi a schiantarsi a terra, dove invece scendevano dopo aver individuato dall'alto la loro preda fresca. Quei vermi duri e lisci che chiamavamo i "puntaletti", solo per il fatto che li infilavamo nell'amo delle tagliole per catturare gli uccelli. 
- E poi ti ho portato il temperino rosso, te lo ricordavi?-
- Cerrrrto! come potrei dimenticare il mio primo temperino col manico rosso intarsiato di madreperla bianca?- non l'ho mai dimenticato il mio primo temperino. Non lo usavo mai per paura che le sue piccole lame, potessero rompersi per quanto erano delicate. Solo a primavera, quando la corteccia dei salici si staccava quasi da sola dai rami, io intagliavo i miei bastoni, che mettevo a seccare all'ombra. Ero fiero dei miei lavori con la lama piccola. Facevo dei ricami fantasiosi, spesso a spirale, nel ramo dei "lupacchi" degli olivi. Ne intagliavo profonda la buccia in maniera verticale ed orizzontale e poi tiravo via i quadratini di pelle dal ramo verde,ai quali facevo seguire un paio di anelli e poi coriandoli bianchi e verdi che col tempo scurivano virando al marrone.
Spesso facciamo delle passeggiate mentre continuiamo a chiacchierare tra noi. talune volte si ferma incantata davanti a qualcosa che lei non ha mai visto. Un giorno, mentre eravamo per la strada che lega la mia borgata al paese, mi ha chiesto di botto:
 - Cos'é questo?- si era fermata sul tombino, e ci stava ficcando la punta della scarpetta tra le fessure della ghisa.
- E' un tombino! serve a raccogliere l'acqua piovana.- anticipai indovinando la sua domanda successiva.
- e dove la porta? si dove finisce l'acqua che va qua dentro?-
- Al mare, come sempre.-
Non mi chiese più niente,  muta al mio fianco a camminare.
- Ti ho portato anche della carta crespa azzurra-
- Ah si? e che ne dovrei fare?- 
Mi guarda senza rispondere, fa un pò la punta con la bocca come i bambini che non sanno cosa rispondere.
-...la mamma ci faceva l'addobbo al filo della corrente e alla lampadina: la legava ogni tanto, formando come dei palloncini...era il lampadario che avevamo in casa. Ricordo che alla fine, quasi sulla lampadina ci faceva una farfalla...mi piaceva, ma d'estate si attaccavano le mosche e ci lasciavano tanti puntini marroni. Ogni tanto la sostituivano. Mia sorella maggiore aiutava la mamma a metterne su una nuova, mentre la piccola giocava coi ritagli e ci confezionava le vesti alla sua bambola di pezza.-
- Mi dispiace-
- Perchè? é un bel ricordo. Mi ha fatto piacere...-
Rifà la boccuccia a punta, il labbro inferiore più lungo.
- Piuttosto...- le chiedo -... mi piacerebbe sapere da dove arrivavi stavolta. mi fa sempre oiacere da dove arrivi quando mi vieni a trovare, lo sai.-
- Venivo da "Coppe delle rose" da sotto; ai "Casarini", ricordi?-
- Perché stanno arando adesso?-
- Preparano la terra per la semina. Negli uliveti stanno cogliendo le olive. Tra poco il paese sarà inondato dall'odore dell'olio, dal rumore dei "trappiti". Vuoi che ti venga a trovare allora?-
- Si certo.- le rispondo senza voce. So che mi sente. Chiudo gli occhi e vedo i "friscoli", i dischi di filo di canapa che servono a separare e contenere la pasta delle olive molate dalle pietre che girano nella tramoggia. Ne fanno una sorta di torta sotto il peso di legno duro e ferro che viene stretto dal perno della vite senza fine, fino a strizzargli tutto l'olio che contiene. Quando riapro gli occhi, mi accorgo che la mia infanzia se n'è andata in silenzio. Tornerà ancora, torna ogni giorno e, spesso, più volte al giorno.

sabato 13 dicembre 2014

Mafia Capitale o Caput Mundi?

                                  dalla Repubblica del 13/12/2014 L'arresto dell'ex Nar Carminati


Mafia Capitale" non mi dice un bel niente.
La mafia romana non nasce per autogenesi, chi l'ha partorita? da dove comincia? quanti anni ha? 
Va bene, ha usato uno squadrista e dei disonesti che si sarebbero venduti pure la madre, ma chi ha messo i soldi in tasca a quella Capra? Chi ci guadagnava all'inizio? Quali e quanti sono gli appalti, le leggi, i favori avuti...ecco, io sospetto molto che il fatto di volerla indicare come "Mafia Capitale" tende a convincerci che una volta svuotato il bubbone romano, disinfettato l'ambiente, il resto è salvo. Io sono propenso a credere che in simili ambienti le cose scoppiano quando qualcuno non "divide giusto", o quando qualcuno diventa troppo pretenzioso o troppo compromesso, sgarra, fa un torto, non rispetta i patti. Ho imparato che quando il denaro unisce gli interessi, é difficile che qualcuno tradisca, ma quando il potere offusca la mente e qualcuno comincia a sentirsi un Dio, ecco che qualcuno fa sapere a chi di dovere dove avviene il misfatto, dove piazzare un microfono, una telecamera... Ma che bravi carabinieri abbiamo a Roma, che riescono ad indovinare il posto e il momento giusto per ogni telefonata, per ogni misfatto, per ogni persona. Cento anni di lotta contro la mafia siciliana hanno prodotto a centinaia le vittime e gli eroi caduti in una lotta che non ha, quasi mai, fruttato una decapitazione vera dell' associazione a delinquere.
Consultate il sito di Progetto Legalità (seguite il link http://progettolegalita.it/it/prodotti_sociali/elenco_vittime_della_mafia.php) e vedete se riuscite a contarne i cadaveri. Quando qualcuno gli dava fastidio solamente avvicinandosi troppo, facevano saltare un'autostrada, delle case abitate da persone innocenti, pur di dare un segnale di forza e terrorizzare qui, invece, tutto pulito, nessun rumore, nessuna vittima...mai nessuno che abbia scosso la testa disturbando il manovratore? Ma questi ci vogliono far credere che davvero le persone sono tutte uguali: basta mettere la mano in tasca, tirare fuori qualche banconota e tutto fila liscio come l'olio. Quello a cui tende questa storia è a far perdere al popolo italiano, la fiducia in coloro che mandano a Roma, e, guarda caso, questo ce lo vogliono far credere proprio nell'unico caso dove, gli elettori italiani, hanno mandato in parlamento, un gruppo di ragazzi che, tolta qualche defezione e qualche sbandamento, sta producendo nel Paese una modifica reale nei rapporti legalità/malaffare/politica, che finora ha potuto regnare indisturbato nel Palazzo. Insomma, qui ci sono tre governi non eletti ed un re che si autoinstaurato sul regno e non può mollare il trono. Non si può pensare ad un nuovo mandato a re giorgio (il caps look funziona) che in realtà sta cercando di scendere dalla barca prima che affondi (vi ricorda Capitano Codardia?) non si proprio pensare che un prossimo presidente possa continuare la navigazione come niente fosse, come se da un remoto comando qualcuno possa gridare all'ignavo re "Risalga a bordo cazzo!" nè si potrà mai andare alle elezioni col rischio che il premio di maggioranza se lo becchi proprio quel Movimento 5 Stelle dei giovani Di Maio, Ficco, Di Battista & co, tanto invisi a chi ha bisogno di poter continuare a intrallazzare in quel tempio. Ed ecco che spunta fuori una operazione esemplare che nessuno poteva concepire mai: Mafia Capitale. Una mafia che non porta a nessun Grande Vecchio, a nessuna inflessione dialettale, alla caverna di nessun promontorio o nido di nessuna specie; qui è nata e basta. Una Cupola della Caput Mundi che nasce e pasce solo nel giardino di casa? Ah! A volerci credere viene quasi da ridere...Ma non è questo il posto da dove gente montata di testa ha conquistato il mondo conosciuto allora per dominarlo? Partirono centurioni e pedatori capaci di percorrere migliaia di chilometri, armati di gladio di rame contro chi aveva già scoperto il ferro ed il bronzo, e conquistarono stati più progrediti, rubando ciò che avevano e tassando il loro futuro per la grandezza di Roma? Ed ora? nel semestre in cui l'Italia guida l'Europa, con il vertice della BCE italiano, col Presidente del Consiglio democristiano, primo capace di mandare a casa (senza liquidazione) un segretario storico di sinistra ed un Primo ministro col suo governo del suo partito, chi fa affari nella Capitale del mondo, si ferma agli affari di quartiere e si fa beccare come polli, con le mani nel sacco. Se le cose stanno davvero così, io chiedo che i ROS di Roma siano trasferiti di botto e al completo, prima a Palermo, poi a Cosenza (dove quel Ballerino che ha truffato a Torino 1400 famiglie lasciandole al freddo) sta aprendo un bar in cui riciclare danaro sporco (https://www.facebook.com/groups/757223750992909/?fref=ts) e poi a Bari e nel Gargano, ad Apricena e dappertutto per battere la Sacra Corona Unita. Come si fa a credere a tutta quest acapacità dei ROS di Roma e a tutta l'incapacità dei ROS del resto d'Italia? Vediamo di chiarirci...e di vederci chiaro: 
Chi ha generato la mafia a Roma fa affari in Italia e nel mondo da sempre. In odore di problemi derivanti dalla presenza di partigiani che ogni giorno combattono la loro RESISTENZA nelle aule dove si annida il Grande Manovratore, dopo aver provato a spezzettarli, frantumarli, dividerli ed espellerli dal Parlamento, sa che non potrà evitare che questi aprano davvero quella cloaca, come hanno promesso: come una scatoletta di sardine.
Napolitano è un morto che cammina, Renzi non reggerà il bluff per sempre; rimestare un pò di merda, facendo fuori qualche stronzo, non può che essere il segnale che il centro di affari si é spostato in luogo sicuro e, se penso che il luogo sicuro per nascondersi, spesso é la tana del lupo, mi viene in mente che nel semestre italiano, con il vertice BCE in mano...Insomma qualcuno dev'essere già volato nel nido del cucùlo.

martedì 9 dicembre 2014

Le Terre di Mezzo

La Terra di Mezzo
Nome originaleMiddle-earth
TipoContinente
IdeatoreJohn Ronald Reuel Tolkien
Appare inIl Signore degli Anelli
Lo Hobbit
Il Silmarillion
I figli di Húrin
Caratteristiche immaginarie
PianetaArda
da Wikipedia
Nulla, più della realtà di oggi, sembra essere quel mondo onirico, che lo scrittore inglese J.R.R. Tolkien, ha chiamato "Terra di Mezzo", anzi...i mondi fantasiosi in cui stiamo vivendo le nostre vite reali, sono tante e diverse. Per questo motivo, ognuno di noi ha la sensazione di "darsi da fare", di fare la "propria parte", senza che questo collimi una sola volta con quello che fanno gli altri, senza che il proprio agire, possa assomigliare nel modo più lontano, ad una sorta di "interesse comune" ma, anzi, qualsiasi azione uno faccia, sembra finire in una sorta di caotico calderone che non fa altro che confermare che si! quel passo, quel tassello, andava proprio fatto, spostato, ma che non ha ottenuto nulla, se non il contrario del proprio intento. Non è servito cioè a portare il proprio contributo, ma ad aumentare la confusione preesistente. Come se il nostro apporto, la merce o il materiale, il nostro manufatto con sacrificio, fosse stato messo, depositato là, proprio in mezzo al passaggio, contribuendo alla confusione che c'era già,  in un enorme magazzino fantastico, dove vengono accumulati i contributi di ognuno di noi senza un ordine preciso, senza che essi siano interdisciplinari ed intersecanti, senza che nessuno di essi, finisca dove doveva e per lo scopo per cui era stato partorito; a portare nuova energia, un cambiamento, un aiuto a migliorare le situazioni preesistenti ormai ritenute da tutti insostenibili. Nella società in cui viviamo, non c'è mai stata tanta democrazia, tanta libertà, tanta indipendenza. Così tanta non ne hanno mai avuta e goduta i nostri avi, coloro che hanno costruito le premesse affinché noi godessimo di questo frutto del loro lavoro, eppure, ognuno di noi si sente impastoiato, ostacolando nei movimenti; come incaprettato, obbligato ad una serie di azioni coatte, non decise ma subite! I Mondi di Mezzo, non sono più pianeti fantastici in altri pianeti, altre dimensioni della fantasia, vite parallele di mondi e persone diverse e differenti ma che hanno un vissuto e degli interessi comuni ad altri , ma ognuno di noi oggi è un pianeta che ha una sua orbita, una sua legge, un suo percorso, una sua verità e tutto questo diventa il mondo per cui lotta contro tutti. Ci siamo evoluti senza preparazione a ciò che é la vita odierna, scippati tutti dalle proprie famiglie, dai propri affetti, dalle proprie culture, dalla natura che ci circondava da sempre e costretti a fabbriche che ci rendevano schiavi, piene di frastuoni innaturali, di aria irrespirabile, di disumanizzazione dell'essere che era stato allevato in noi. Ci hanno fatti diventare pazzi, ma noi abbiamo voluto credere che fosse utile, necessario perfino e ci siamo aperti a ciò che sembrava "il nuovo", ma che era solo la perdita di ciò che eravamo senza costruzione di niente altro. Da quelle fabbriche e dall'industrializzazione della società, ne abbiamo ricavato una sensazione di potenza sulla natura, sugli elementi, sulla vita perfino. Abbiamo perso la coscienza che eravamo vermi di terra e che della terra ne avevamo bisogno per la nostra stessa sopravvivenza. Abbiamo odiato e divorato la Madre che ci aveva allattato e divorato l'essere che lei aveva cresciuto, per ottenere un atomo scisso da ogni altro, libero da ogni legame e da ogni senso di appartenenza ed allora...ci siamo persi! Siamo assolutamente incapaci, ormai, di immaginare perfino, ciò che noi sappiamo da sempre: di essere atomi che formano un nucleo, che abbiamo bisogno di altri per far parte di qualcosa: di essere parti inscindibili di un gruppo, famiglia, comunità, popolo, genere. La nostra educazione, la nostra cultura, da qualsiasi parte la si prendesse, ci portava ad avere la coscienza di essere parte del creato, parte dell'emancipazione della vita evolutiva, ma sempre qualcosa legato a qualcos'altro inscindibilmente. Oggi, noi non pensiamo di essere l'atomo del Caos, l'unico che porta in se, la scintilla della vita, la luce divina, eppure, tutto ciò che facciamo, finisce per far pensare a questo, come volessimo distruggere tutto il resto per sopravvivere. Gli uomini non ragionano più come genere, ma non c'è nessun nuovo modo di essere. Abbiamo ceduto il nostro essere genere, in cambio di ciò che doveva essere il nuovo centro di misura: la persona! Non un maschio e neppure la femmina, ma l'essere umano nella sua completezza e nella sua individualità: la persona. Ciò che abbiamo ottenuto però, é un essere perso che ha difficoltà di individuare e seguire un suo progetto, un modello. Abbiamo ucciso l'uomo del passato senza allevare uno pronto per il futuro; il risultato é che quello del presente non è niente, se non un disperso in cerca di sopravvivere quotidianamente, pressato dalle contingenze e senza avere il tempo di pensare ad un sogno. Abbiamo così ucciso la donna del passato: non più serva e schiava. Non più complemento oggetto, ma centro e nucleo intorno alla quale costruire la donna, ma la donna che abbiamo oggi non é quella intorno alla quale un uomo costruiva una famiglia, la donna ha cambiato pelle, stile ed é difficile comprenderne quale sia il ruolo che vorrà avere nel futuro così rapportarsi ad una persona, senza pensarla donna e senza pensarsi uomo, diventa un discorso fluido che non si capisce da quale angolo tenere. Abbiamo perso il bandolo e la matassa. Abbiamo distrutto il concetto della famiglia per pensare ad una  nuova famiglia; il risultato è una confusione totale di comportamenti individuali non più rapportabili a degli schemi. La cosa può sembrare liberatoria, aperta ad ogni futuro, ma fin'ora non ha prodotto la stabilità che quel nucleo aveva prima e che permeava di quella stabilità, di quella sicurezza, tutti i membri partecipi e gli esserei di contorno. Distribuendo certezze ai figli e sicurezza ad una enorme cerchia di persone che si chiamava parentado. Abbiamo buttato gambe all'aria i figli in età fragili, nel momento in cui dovevano costruire la loro personalità e la comprensione della loro catena di affetti. Abbiamo gettato all'aria l'orizzonte nel quale crescevano e strappate le fotografie della loro mente; gli abbiamo regalato nuovi padri e madri che non erano nè padri nè madri, ma neppure estranei nè amici, ma loro si son dovuti piegare al fatto che il sole e la luna delle loro albe e tramonti erano scomparsi dal loro cielo.
Ecco cosa abbiamo fatto nella nostra vita e, visto che ne stiamo pagando noi le conseguenze, bisognerebbe chiedersi: ma davvero ce lo siamo fatti noi questo regalo? chi ci ha tolto la capacità di comprendere che ogni causa produce un effetto? Cosa ci ha fatto credere che se buttavamo giù tutto quello in cui credevamo, la polvere e le macerie non ci avrebbero travolto e soffocato? Siamo stati manipolatiDa chi? e qui mi fermo, perché non voglio passare per pazzo, porgendo il fianco a tutti i vostri suggerimenti: "...cosa ci mettono nel cibo...le scie chimiche...gli extraterrestri...l'ho sempre detto io..." no...io qui mi fermo. A chi devo rendere conto? Io vivo su Arda.

giovedì 20 novembre 2014

l'articolo 18, il Job act e la sentenza amianto

Nel leggere lo scandalo e la reazione che scatena ognuno di queste azioni, determinate tra l'altro da organi e istituzioni diverse, sembra che cause differenti, si tingono dello stesso colore (della bile) e scatenano la medesima furiosa protesta, lo stesso clamore, ma anche la stessa simile, determinata, corale inefficace ed inutile risposta: la stampa e i media fanno addirittura più rumore di quanto ne faccia la piazza, per poi chetarsi velocemente e sparire, lasciando il campo alla serena azione della confindustria, magistratura e governo. Ecco. Mi colpisce come il volume ed il tono dei giornalisti sia un tantinello più alto perfino di quello della Fiom e, proprio per lo stupore che suscita, sembra quasi produca un effetto soporifero della re-azione alle ingiuste soluzioni, ma che subito lascia quel silenzio ovattato dei campi avvolti dalla nebbia di novembre, come se cristallizzasse sulla piazza, le urla di chi reclama ingiustizia, come la brina sull'erba. Io ho la netta sensazione, che tutto faccia parte di un unico disegno e che gli antagonisti facciano fatica a leggere e intravvedere. non ho mai verificato i nomi dei giornalisti che firmano un pezzo, leggono le veline del tg, ma mi sembrano scandite allo stesso ritmo; se non sto attento alle parole, un qualsiasi servizio potrebbe sembrare che mi stesse parlando di una di quelle questioni indifferentemente. Insomma, i sindacati conducono manifestazioni e lotte contro l'abolizione dell'articolo 18 e il risultato qual'é? che viene cancellato. L'opinione pubblica ruggisce contro il possibile annullamento della sentenza sull'amianto e il risultato qual'é? l'annullamento per prescrizione. Tutti contrastano il Job/act, bollandolo quantomeno di inefficacia e il risultato? lo approvano tutti perchè non c'é alternativa. Questo cantare alla luna dei cojotes sembra addirittura manovrato da una regìa speciale. Ma quale dovrebbe essere la possibile alternativa? Io faccio fatica ad intuirne una. Non vogliamo più che i barconi scarichino sulle nostre coste una fetta di umanità in cerca di una fuga alla fame e alle guerre, ci sembra più giusto aiutarli a casa loro e smettere di derubarli delle loro risorse: il risultato non può essere altro che la delocalizzazione verso i paesi poveri ( e senza diritti sindacali) delle nostre industrie. Possono andare a produrre a più basso costo, in posti in cui non esistono leggi contro l'inquinamento, possono portare sviluppo e benessere in luoghi e Paesi poveri, non chiedevamo questo? Vogliamo che le fabbriche smettano di inquinare il nostro Paese, cosciente ormai giustamente che la terra vada difesa e non aggredita, ma come si fa tutto questo se non in questo modo? Vogliamo poi attrarre sul nostro territorio investimenti stranieri che creino nuova occupazione. Come si potrebbe fare se non abolendo completamente i diritti acquisiti di una classe operaia poco incline a farsi sfruttare come un cinese, poco disposta a produrre come uno stakanovista e farsi pagare come un africano? Lo si riduce disoccupato e senza futuro poi, dopo un pò di anni di fame e perdita di memoria di classe, gli si fa vedere un barlume di luce in fondo al tunnel della disperazione e della fame e vedrete che il gioco è fatto. Ma come si convincono gli investitori stranieri (Cinesi ad esempio) a venire ad investire nel nostro Paese se quelli possono già liberamente fare tutto questo nel loro Paese o in altri? Gli si mostra che anche se uccidi una cinquantina di abitanti all'anno con il mesioteloma o l'asbetosi, non sarai condannato alla fine e di non tenere conto di due giudizi dati in pasto alle famiglie per farli stemperare la protesta, non importa se i tempi del processo sono colpa dei giudici che li determinano (magari sapientemente per arrivare a quel risultato), tu non sarai condannato e non cacci fuori un centesimo: se son morti è colpa loro! Ecco. Io ora mi aspetto che tra due giorni, quando gli architetti che costruiscono i ponti di parole sulle questioni di cui sopra, avranno deciso che dobbiamo dimenticare l'accaduto, ci faranno dare in pasto, la notizia di una piccola ripresa dell'occupazione, grazie a nuovi timidi investimenti che possono, a seconda della nostra accoglienza, ritirarsi dalla scena o inondare il nostro Paese con un piccolo tsunami benefico. Ecco, mi aspetto questo. Perché se no come fanno a farci riaddormentare senza riflettere che se vogliamo che i capitali stranieri investano da noi, dopo non sono le "nostre" industrie che abbandonano il Paese, ma le loro che vengono ritirate dopo aver preso quello che vogliono. Come facciamo a continuare a dirci che quando il capitale straniero investe in Italia é bene, ma che se il capitale italiano investe all'estero é tradimento? E come facciamo a dirci che se in Cina muoiono operai che lavorano in condizioni pietose è normale mentre se in Italia uccidono qualcuno li costringeremmo a pagare e ad andare in galera? Queste non sono cose sostenibili, anzi, fanno proprio a cazzotti e, sul ring, il pugile chiuso sotto i colpi avversari nell'angolo, siamo proprio noi: la gente normale: quella che non conta niente!


lunedì 17 novembre 2014

l'Elogio del mò

L'elogio del "mo"

Questa particella dialettale, diffusissima nel parlato quotidiano, ma non ufficializzata nella lingua scritta, é, sicuramente, molto più efficace della definizione italiana del suo senso: "mo" é il prefisso della parola "momento" ed è efficacissima, a dispetto della dizione completa del "momento" che rifiuta proprio di specificare davvero quanto lungo sia il lasso di tempo che gli si vorrebbe attribuire: Momento,
 sostantivo, sinonimi:
 Chiunque può dirti "aspetta un momento",  "un momento che arrivo", " può attendere un momento", "si  accomodi un momento in sala d'attesa"; classico delle donne "sarò pronta tra un momento"...potremmo continuare all'infinito, ma tutti sappiamo che barba quel momento di attesa, assolutamente sconosciuto il tempo che durerà. Il "momento" ti pone in una condizione antipatica; tutti abbiamo la sensazione di subire una violenza, un furto indeterminato del nostro tempo che qualcuno ci sottrae a sua volontà. La dizione del momento è una bugia! la stessa etimologia della parola lo dice, ed usa proprio per affermarlo, la nostra amata particella a sottolineare che in quell'istante, contemporaneo e durevole solo il suono del "mo", sta il tempo della verità, per il resto è una menzogna: "mento"! D'altronde anche volendo prendere in esame altre estensioni e significati della parola, non facciamo altro che peggiorarne il suo uso: "ti faccio passare un brutto momento" è una minaccia di lunghe ed atroci sofferenze, altro che piccola frazione di tempo. Terribile poi la minaccia della mamma che, quando non ce la faceva più, ci gridava dietro come lanciasse un anatema: " quando glielo dirò a tuo padre vedrai che ti farà passare un brutto momento" una tortura che durava tutto il tempo dell'assenza del papà e che tramutava il suo agognato ritorno, da gioia in terrore per l'incertezza del castigo. Momento mantiene le promesse del suo sinistro significato: Mo-mento...quando ti trovi a passare un brutto guaio; "...sto attraversando un brutto momento", un periodo non proprio felice: " questo è proprio un momento di....", dal dentista: " apra la bocca, non sentirà niente e tra un momento sarà tutto finito"... Insomma no! Mo-mento è una parola che andrebbe abolita perchè si presta troppo palesemente ai bugiardi, a coloro che ti prendono in giro, non mantiene la promessa in nessun caso!
Proprio il contrario di "mo", la sua abbreviazione dialettale. Mò! vuol dire proprio adeso, nello stesso spazio temporale del suono, in quel decimo/secondo che lo pronunci e lo odi. Mo vuol dire immediatamente, faccio questo mentre lo dico e prima che finisca di udirlo. Mo si associa con il presente dell'attimo, il suo prolungamento sposta lo svolgere dell'azione nel futuro: "quando arrivi?" "mo, sto quà!" "mo devo fare il caffè" lo dici mentre stai già avvitando la caffettiera, "dammi un bacio" "quando?" "mò!" e la stai già baciando. " Mò te ne devi andare da quà!" é una frase che si accompagna con un tale tono d'urgenza che l'altro capisce benissimo, visto che stai ringhiando, che deve sparire in quel preciso secondo."Mò me la faccio addosso" lo dici mentre guardi i pantaloni e l'alone scende, in contemporanea, non è la stessa cosa se dici " tra un momento me la faccio addosso" " quando?" "tra un momento..." "ah!, tra un momento..." e già non ci credi neppure tu, che te lo scordi e la fai dopo due ore...Ora vi state chiedendo quando la smetto, vero? e, sono sicuro che vorreste sentirvi dire mò...tremate all'idea che io risponda...ancora un...momento.

mercoledì 8 ottobre 2014

Il Pappo

Voglio raccontarvi un aneddoto, relativamente recente della mia vita:  nel 2011 vennero sdoganati in Valsangone, 31 ragazzi e ragazze africani, provenienti dalla Libia, sbarcati a Lampedusa. (chi vorrà potra seguire tutta la faccenda seguendo questo link:http://associazionemigrantisanpaolesinelmondo.wordpress.com/ ) ma quello di cui voglio parlarvi io é una chicca che vi farà sorridere. In quel periodo io cominciai a scrivere sul blog della nostra associazione di emigranti, raccontando quasi minuto per minuto (come direbbe un inglese "live") quella mia esperienza coi i profughi. Costituimmo con dei concittadini, uno strumento importante per poterlo fare meglio: Una associazione denominata "La casa dei Popoli di Giaveno". Per motivi politici di controllo, chi amministrava allora la res publica qui, non vedeva di buon occhio che qualcosa non fosse sotto il loro controllo, così si adoperarono per potermi sottrarre l'associazione. Per poter raggiungere lo scopo, usarono le persone a me intorno che mal vedevano il mio essere così di riferimento, il mio ruolo. In quell'azione si distinsero per "impegno" contro il sottoscritto, un anziano prete in pensione, il quale non ha ancora smesso di intrigare alle spalle di qualcuno, ed un' altra ottima persona, che però rode da matti, quando il suo ruolo lo confina sul bordo delle foto: un certo B.D. Questo tizio è un uomo di cuore e possiede capacità pratiche che sono importanti in una associazione, ma non ha assolutamente l'inventiva personale e quindi è destinato ad essere sempre utile, ma assolutamente secondario nelle cose. Però, il tipo, mal si adegua ad un ruolo subalterno, soffre di quella necessità di starci nella foto, magari anche ai bordi, ma presente. Si rivelò di grande aiuto, ma non poteva (anche per impegni familiari) essere così disponibile come il sottoscritto, così collezionò qualche sassolino nella scarpa, da togliersi con una fredda vendetta nei miei confronti e quando il prete, per ordine del sindaco, mi volle mettere in condizione di non poter più seguire i ragazzi africani, trovò in lui un eccellente supporto contro di me. Insieme mi espulsero dalla Casa dei Popoli e la ridussero ad un contenitore vuoto, inutile. Ma non contenti, cercarono un appiglio per potermi tagliare gambe e braccia per sempre: fecero delle riunioni in cui il titolo di convocazione recitava così: "Valutare la possibilità di denunciare penalmente Martella per le sue azioni". Già.
Non mi trattengo a dirvi nel particolare, le cose che dovevano portare delle persone, a denunciare penalmente uno che stava dando solidarietà ai profughi, ma in questa terra, che aveva accolto i ragazzi scappati dalla guerra in Libia, con striscioni "Fora d'i ball", uno come me dà fastidio a più di qualcuno. Questo B.D. però, in un atto davvero eccessivo per il suo neurone burocrate, superò se stesso: in una lettera che era come una foto, prostrato e coi pantaloni abbassati verso la sindaca del paese, scrisse del "Pappo", il mio blog. La lettera (una copia è ancora in mio possesso) recapitatami da un amico che avrebbe dovuto partecipare alla riunione per la denuncia nei miei confronti, nel suo svolgersi, dice testualmente: "...d'altronde si può rilevare benissimo anche dal titolo del suo blog "Il Pappo", quanto il Martella sia offensivo nei vostri confronti; difatti "Il Pappo" niente altro è che un'accusa nei vostri confronti di Forza Italia, di essere cioè come i protettori delle prostitute, cioé dei "papponi", nascosto dal doppio senso ironico, dietro al quale si cela la vera natura infamante del Martella, c'è la sua accusa a voi che amministrate di fare i vostri comodi sfruttando le opportunità pubbliche..." Il B.D. usando il mio nome, sparava il suo pensiero (che in realtà condividevo sulla sindaca) ma il neurone di cui disponeva, era andato in tilt sul "Pappo" che lui proprio non aveva capito, che cavolo c'entrava come titolo del mio blog. Eppure c'era, sin dalla prima comparsa la spiegazione di cosa intendevo con quel simbolo, scritta che ancora oggi compare sulla home page del blog e che riporto con un copia e incolla: " Il Pappo...Quando il soffione sembra che muoia disfacendosi, allora il pappo vola leggero a portare lontano nuova vita..." Chiaro no? ma il povero B.D. non sapendo che il pappo è il seme del tarassaco (cicorione selvatico) che fa il fiore che si chiama dente di leone,  che dopo che si trasforma in soffione e che spappolandosi porta a nuova vita dovunque riesce ad atterrare portato dal vento, suppose di trovare un'assurda accusa nei miei confronti, prelevando dal mio simbolo di fertilità, quel senso malato, che riusciva a partorire col suo neurone in debito di ossigeno come un ciclista in salita.
Il mio simbolo é in realtà dettato dalla mia vita davvero! il soffione ed il pappo sono stati miei compagni di gioco sin dall'infanzia; vivevo in campagna ed ero il più piccolo dei fratelli e mentre loro erano a scuola, al lavoro o in giro, a me non rimaneva altro che correre per i campi dietro a farfalle, serpi, rospi e...soffioni. Mettete un bambino appena in grado di camminare in un prato e cosa credete che farà? dopo aver cominciato a strappare fili d'erba, fiori, noterà quei magnifici fragili palloncini soffici e appena li avrà in mano scoprirà la loro caducità e il loro spappolarsi all'aria e volare via. da li a poco imparerà che soffiare per correre con lo sguardo dietro ai pappi, i piccoli semi con la sottile appendice che sembra un filo di cotone, volano via come i suoi giorni, saranno i suoi sogni, le sue prime scoperte, i suoi primi canti. Queste foto del mio piccolo Luca, mi ha fatto pensare oggi a quest'aneddoto ed ho voluto condividere con voi, perchè quel B.D., gira di nuovo intorno al sottoscritto che ha elaborato nuove iniziative e, se ha pensato tanto male del mio simbolo prima, chissà cosa ne trarrà fuori oggi nel vedere che porto mio figlio da piccolo nei campi a ripetere il mio gioco infantile; chissà di cosa sarà capace di accusare il mio piccolo fiore che incarna proprio quella mia frase:"...Quando il soffione sembra che muoia disfacendosi, allora il pappo vola leggero a portare lontano nuova vita..."  Ecco, Luca è proprio la nuova vita che è nato da un seme volato col vento, dopo che la mia vita, soffione ormai disfatto dopo tante cadute, ha liberato nell'aria i suoi pappi. Spero sempre ch ela sorte riserva migliori amici ai miei figli, come tutti del resto facciamo, no? Ma so anche che spesso la storia si ripete sotto forma di farsa; a Gesù toccò Giuda, a me é toccato B. D. chissà come si chiamerà il suo "amico" mono neuronico?





mercoledì 1 ottobre 2014

La valigia di Cartone

 



Era il mese di agosto del 1970, quell’anno abbiamo abbandonato il paese per sempre.
In realtà, alcuni della famiglia erano  già a Torino da un pezzo, presso la casa di una delle mie sorelle maggiori, sposata ed emigrata in questa città da anni. Io e mia madre eravamo rimasti in paese ad aspettare che lassù trovassero casa e lavoro e poi li avremmo raggiunti.
Dovevamo anche attendere che mia nonna, la madre di mia madre, ormai da molto tempo a letto in fin di vita, si spegnesse, non potevamo di certo lasciarla, né tampoco portarla con noi.
In realtà io non sarei mai voluto emigrare, il lavoro in paese non mi era mai mancato, mi adattavo a qualsiasi cosa e riuscivo ad avere buoni rapporti con la gente con cui lavoravo, amavo i luoghi in cui ero nato e cresciuto, ero felice per piccole cose o quando pescavo con le mani il pesce nel Fortore, eppure me ne andai.
Ero emigrato in Germania nel 1965, seguendo mio fratello di due anni più grande di me.
Da allora avevo fatto su e giù a periodi, tra questi, vissi qualche mese a Milano, dove avevo raggiunto la mia ragazza del paese, il mio primo amore, anche lei emigrata con la famiglia al nord in cerca di una vita migliore. Ero tornato dalla Germania traumatizzato dall’esperienza,volevo togliermi l’obbligo del servizio militare, per poter vivere in Italia e così, appena finito, tornai a casa.
Qui però le cose erano cambiate, gli amici erano partiti e le cose non erano più le stesse.
I paesi erano vuoti durante l’anno e d’estate i “ ciao neh?”, così venivano chiamati coloro che erano emigrati al nord, tornavano con le auto lucide e con i vestiti stirati e parevano pieni di soldi per potersi godere le vacanze al mare e correre su e giù con le macchine.
Così partii! Così partimmo tutti, con la convinzione che a nord o a sud, questo era comunque il nostro paese.
Arrivai a Porta Nuova, la stazione centrale di Torino, dopo un viaggio allucinante in treno con la febbre a quaranta, sdraiato su un asciugamano, nel corridoio di un vagone stracolmo di una umanità piena di progetti, velleità e tante scatole legate con lo spago, con mia madre e con le nostre poche cose e da quel momento mi accorsi che la mia essenza era cambiata: ero un terrone con la valigia di cartone! Torino, o meglio Grugliasco, fu subito per noi la casa, il lavoro ed una vita che giorno per giorno, si arricchiva di rapporti ed amicizie nuove. La mia mente di ragazzo emigrato, a secco di cultura, veniva trasportata verso mille avventure da stimoli nuovi ed eccitanti.
L’Italia in quegli anni era in fermento per i movimenti giovanili, che seguivano l’onda rivoluzionaria del “ Che “ e del maggio francese e si contrapponevano , sui posti di lavoro e nelle famiglie era tutta un’assemblea continua su ogni argomento: la libertà, il lavoro, la sessualità, la famiglia, il femminismo, tutte queste cose fecero su di me
 una presa rapida come quella del cemento, ne fui travolto attraverso una ragazza torinese che veniva a dare volantini agli operai, davanti i cancelli della fonderia Westinghouse dove io lavoravo.
Dopo un po’ ero uno dei militanti del Manifesto e suo marito.
Mi ero sposato senza neanche accorgermene, lo aveva voluto lei ed io avevo semplicemente detto ok. Avevamo trovato un alloggio in una villetta con giardino ed orto nel quartiere di “ città giardino”, periferia buona di Torino, un paradiso per noi e per me che sentivo la mancanza della terra. Il proprietario era un anziano signore piemontese, contentissimo della sposa insegnante e delle mie estrazioni contadine per via dell’orto, ma…accidenti a quel piccolo particolare….ero un terùn e lui proprio non si fidava a darci l’alloggio.
Io non mi ci ritrovavo nella visione che avevano di noi immigrati gli indigeni, mi sembrava così strano che mi chiamassero “ napuli “  o  “ siciliano mafioso “ e poi, ma che voleva dire “ valigia di cartone ?”  Tutte le valige erano di cartone in quegli anni, solo i signori potevano permettersi quelle belle in cuoio! Eravamo allora come gli extracomunitari di oggi, senza mestiere,  senza casa e senza certezze.
Solo ora, dopo trentacinque anni di vita passati qui, comincio a sentirmi un italiano, non sento più quei nomignoli con cui venivamo  etichettati.
Questo credo sia dovuto all'arrivo di stranieri da fuori. Proprio mentre qualcuno voleva ridividere il paese in regioni, il mondo s’è rimischiato in modo tale che ogni paese è una torre di babele.
Oggi siamo noi ad indicare gli altri come: extracomunitari, ladri di lavoro, clandestini.
Proprio adesso che nessuno la nomina più, la mia mente va a ritroso a quella valigia di cartone e mi piace cercare di capire, cosa volevano dire loro e cosa voleva dire per noi quella valigia, quella fragilità nella quale chiudevamo insieme alle poche cose che avevamo, tutte le nostre speranze, tutti i nostri progetti insieme alle nostre paure.
Già, le nostre vecchie inconfessate paure  con le quali lasciavamo i nostri luoghi natii,  i nostri affetti e i nostri morti e quelle nuove che ci nascevano e con le quali venivamo accolti nei posti sconosciuti in cui arrivavamo, con gente che parlava un altro idioma e che esponeva cartelli “ affittasi a non meridionali “, per i quali tu eri solo un terùn, un napuli, un extracomunitario.
Ecco che cosa era la nostra valigia di cartone: la nostra debolezza, nostra come di tutti i poveri del mondo costretti ad emigrare per non morire d’inedia.
È strano, ma ancora oggi non amo le valige di cuoio, se viaggio lo faccio con valige di stoffa, colorate.
Ma se ho tanta roba da portarmi dietro, cosa che mi capita di rado, chiedo aiuto e pazienza ancora alla mia vecchia valigia di cartone.


  da "Dalla cenere di una quercia" Neos edizioni 2005