mercoledì 8 ottobre 2014

Il Pappo

Voglio raccontarvi un aneddoto, relativamente recente della mia vita:  nel 2011 vennero sdoganati in Valsangone, 31 ragazzi e ragazze africani, provenienti dalla Libia, sbarcati a Lampedusa. (chi vorrà potra seguire tutta la faccenda seguendo questo link:http://associazionemigrantisanpaolesinelmondo.wordpress.com/ ) ma quello di cui voglio parlarvi io é una chicca che vi farà sorridere. In quel periodo io cominciai a scrivere sul blog della nostra associazione di emigranti, raccontando quasi minuto per minuto (come direbbe un inglese "live") quella mia esperienza coi i profughi. Costituimmo con dei concittadini, uno strumento importante per poterlo fare meglio: Una associazione denominata "La casa dei Popoli di Giaveno". Per motivi politici di controllo, chi amministrava allora la res publica qui, non vedeva di buon occhio che qualcosa non fosse sotto il loro controllo, così si adoperarono per potermi sottrarre l'associazione. Per poter raggiungere lo scopo, usarono le persone a me intorno che mal vedevano il mio essere così di riferimento, il mio ruolo. In quell'azione si distinsero per "impegno" contro il sottoscritto, un anziano prete in pensione, il quale non ha ancora smesso di intrigare alle spalle di qualcuno, ed un' altra ottima persona, che però rode da matti, quando il suo ruolo lo confina sul bordo delle foto: un certo B.D. Questo tizio è un uomo di cuore e possiede capacità pratiche che sono importanti in una associazione, ma non ha assolutamente l'inventiva personale e quindi è destinato ad essere sempre utile, ma assolutamente secondario nelle cose. Però, il tipo, mal si adegua ad un ruolo subalterno, soffre di quella necessità di starci nella foto, magari anche ai bordi, ma presente. Si rivelò di grande aiuto, ma non poteva (anche per impegni familiari) essere così disponibile come il sottoscritto, così collezionò qualche sassolino nella scarpa, da togliersi con una fredda vendetta nei miei confronti e quando il prete, per ordine del sindaco, mi volle mettere in condizione di non poter più seguire i ragazzi africani, trovò in lui un eccellente supporto contro di me. Insieme mi espulsero dalla Casa dei Popoli e la ridussero ad un contenitore vuoto, inutile. Ma non contenti, cercarono un appiglio per potermi tagliare gambe e braccia per sempre: fecero delle riunioni in cui il titolo di convocazione recitava così: "Valutare la possibilità di denunciare penalmente Martella per le sue azioni". Già.
Non mi trattengo a dirvi nel particolare, le cose che dovevano portare delle persone, a denunciare penalmente uno che stava dando solidarietà ai profughi, ma in questa terra, che aveva accolto i ragazzi scappati dalla guerra in Libia, con striscioni "Fora d'i ball", uno come me dà fastidio a più di qualcuno. Questo B.D. però, in un atto davvero eccessivo per il suo neurone burocrate, superò se stesso: in una lettera che era come una foto, prostrato e coi pantaloni abbassati verso la sindaca del paese, scrisse del "Pappo", il mio blog. La lettera (una copia è ancora in mio possesso) recapitatami da un amico che avrebbe dovuto partecipare alla riunione per la denuncia nei miei confronti, nel suo svolgersi, dice testualmente: "...d'altronde si può rilevare benissimo anche dal titolo del suo blog "Il Pappo", quanto il Martella sia offensivo nei vostri confronti; difatti "Il Pappo" niente altro è che un'accusa nei vostri confronti di Forza Italia, di essere cioè come i protettori delle prostitute, cioé dei "papponi", nascosto dal doppio senso ironico, dietro al quale si cela la vera natura infamante del Martella, c'è la sua accusa a voi che amministrate di fare i vostri comodi sfruttando le opportunità pubbliche..." Il B.D. usando il mio nome, sparava il suo pensiero (che in realtà condividevo sulla sindaca) ma il neurone di cui disponeva, era andato in tilt sul "Pappo" che lui proprio non aveva capito, che cavolo c'entrava come titolo del mio blog. Eppure c'era, sin dalla prima comparsa la spiegazione di cosa intendevo con quel simbolo, scritta che ancora oggi compare sulla home page del blog e che riporto con un copia e incolla: " Il Pappo...Quando il soffione sembra che muoia disfacendosi, allora il pappo vola leggero a portare lontano nuova vita..." Chiaro no? ma il povero B.D. non sapendo che il pappo è il seme del tarassaco (cicorione selvatico) che fa il fiore che si chiama dente di leone,  che dopo che si trasforma in soffione e che spappolandosi porta a nuova vita dovunque riesce ad atterrare portato dal vento, suppose di trovare un'assurda accusa nei miei confronti, prelevando dal mio simbolo di fertilità, quel senso malato, che riusciva a partorire col suo neurone in debito di ossigeno come un ciclista in salita.
Il mio simbolo é in realtà dettato dalla mia vita davvero! il soffione ed il pappo sono stati miei compagni di gioco sin dall'infanzia; vivevo in campagna ed ero il più piccolo dei fratelli e mentre loro erano a scuola, al lavoro o in giro, a me non rimaneva altro che correre per i campi dietro a farfalle, serpi, rospi e...soffioni. Mettete un bambino appena in grado di camminare in un prato e cosa credete che farà? dopo aver cominciato a strappare fili d'erba, fiori, noterà quei magnifici fragili palloncini soffici e appena li avrà in mano scoprirà la loro caducità e il loro spappolarsi all'aria e volare via. da li a poco imparerà che soffiare per correre con lo sguardo dietro ai pappi, i piccoli semi con la sottile appendice che sembra un filo di cotone, volano via come i suoi giorni, saranno i suoi sogni, le sue prime scoperte, i suoi primi canti. Queste foto del mio piccolo Luca, mi ha fatto pensare oggi a quest'aneddoto ed ho voluto condividere con voi, perchè quel B.D., gira di nuovo intorno al sottoscritto che ha elaborato nuove iniziative e, se ha pensato tanto male del mio simbolo prima, chissà cosa ne trarrà fuori oggi nel vedere che porto mio figlio da piccolo nei campi a ripetere il mio gioco infantile; chissà di cosa sarà capace di accusare il mio piccolo fiore che incarna proprio quella mia frase:"...Quando il soffione sembra che muoia disfacendosi, allora il pappo vola leggero a portare lontano nuova vita..."  Ecco, Luca è proprio la nuova vita che è nato da un seme volato col vento, dopo che la mia vita, soffione ormai disfatto dopo tante cadute, ha liberato nell'aria i suoi pappi. Spero sempre ch ela sorte riserva migliori amici ai miei figli, come tutti del resto facciamo, no? Ma so anche che spesso la storia si ripete sotto forma di farsa; a Gesù toccò Giuda, a me é toccato B. D. chissà come si chiamerà il suo "amico" mono neuronico?





mercoledì 1 ottobre 2014

La valigia di Cartone

 



Era il mese di agosto del 1970, quell’anno abbiamo abbandonato il paese per sempre.
In realtà, alcuni della famiglia erano  già a Torino da un pezzo, presso la casa di una delle mie sorelle maggiori, sposata ed emigrata in questa città da anni. Io e mia madre eravamo rimasti in paese ad aspettare che lassù trovassero casa e lavoro e poi li avremmo raggiunti.
Dovevamo anche attendere che mia nonna, la madre di mia madre, ormai da molto tempo a letto in fin di vita, si spegnesse, non potevamo di certo lasciarla, né tampoco portarla con noi.
In realtà io non sarei mai voluto emigrare, il lavoro in paese non mi era mai mancato, mi adattavo a qualsiasi cosa e riuscivo ad avere buoni rapporti con la gente con cui lavoravo, amavo i luoghi in cui ero nato e cresciuto, ero felice per piccole cose o quando pescavo con le mani il pesce nel Fortore, eppure me ne andai.
Ero emigrato in Germania nel 1965, seguendo mio fratello di due anni più grande di me.
Da allora avevo fatto su e giù a periodi, tra questi, vissi qualche mese a Milano, dove avevo raggiunto la mia ragazza del paese, il mio primo amore, anche lei emigrata con la famiglia al nord in cerca di una vita migliore. Ero tornato dalla Germania traumatizzato dall’esperienza,volevo togliermi l’obbligo del servizio militare, per poter vivere in Italia e così, appena finito, tornai a casa.
Qui però le cose erano cambiate, gli amici erano partiti e le cose non erano più le stesse.
I paesi erano vuoti durante l’anno e d’estate i “ ciao neh?”, così venivano chiamati coloro che erano emigrati al nord, tornavano con le auto lucide e con i vestiti stirati e parevano pieni di soldi per potersi godere le vacanze al mare e correre su e giù con le macchine.
Così partii! Così partimmo tutti, con la convinzione che a nord o a sud, questo era comunque il nostro paese.
Arrivai a Porta Nuova, la stazione centrale di Torino, dopo un viaggio allucinante in treno con la febbre a quaranta, sdraiato su un asciugamano, nel corridoio di un vagone stracolmo di una umanità piena di progetti, velleità e tante scatole legate con lo spago, con mia madre e con le nostre poche cose e da quel momento mi accorsi che la mia essenza era cambiata: ero un terrone con la valigia di cartone! Torino, o meglio Grugliasco, fu subito per noi la casa, il lavoro ed una vita che giorno per giorno, si arricchiva di rapporti ed amicizie nuove. La mia mente di ragazzo emigrato, a secco di cultura, veniva trasportata verso mille avventure da stimoli nuovi ed eccitanti.
L’Italia in quegli anni era in fermento per i movimenti giovanili, che seguivano l’onda rivoluzionaria del “ Che “ e del maggio francese e si contrapponevano , sui posti di lavoro e nelle famiglie era tutta un’assemblea continua su ogni argomento: la libertà, il lavoro, la sessualità, la famiglia, il femminismo, tutte queste cose fecero su di me
 una presa rapida come quella del cemento, ne fui travolto attraverso una ragazza torinese che veniva a dare volantini agli operai, davanti i cancelli della fonderia Westinghouse dove io lavoravo.
Dopo un po’ ero uno dei militanti del Manifesto e suo marito.
Mi ero sposato senza neanche accorgermene, lo aveva voluto lei ed io avevo semplicemente detto ok. Avevamo trovato un alloggio in una villetta con giardino ed orto nel quartiere di “ città giardino”, periferia buona di Torino, un paradiso per noi e per me che sentivo la mancanza della terra. Il proprietario era un anziano signore piemontese, contentissimo della sposa insegnante e delle mie estrazioni contadine per via dell’orto, ma…accidenti a quel piccolo particolare….ero un terùn e lui proprio non si fidava a darci l’alloggio.
Io non mi ci ritrovavo nella visione che avevano di noi immigrati gli indigeni, mi sembrava così strano che mi chiamassero “ napuli “  o  “ siciliano mafioso “ e poi, ma che voleva dire “ valigia di cartone ?”  Tutte le valige erano di cartone in quegli anni, solo i signori potevano permettersi quelle belle in cuoio! Eravamo allora come gli extracomunitari di oggi, senza mestiere,  senza casa e senza certezze.
Solo ora, dopo trentacinque anni di vita passati qui, comincio a sentirmi un italiano, non sento più quei nomignoli con cui venivamo  etichettati.
Questo credo sia dovuto all'arrivo di stranieri da fuori. Proprio mentre qualcuno voleva ridividere il paese in regioni, il mondo s’è rimischiato in modo tale che ogni paese è una torre di babele.
Oggi siamo noi ad indicare gli altri come: extracomunitari, ladri di lavoro, clandestini.
Proprio adesso che nessuno la nomina più, la mia mente va a ritroso a quella valigia di cartone e mi piace cercare di capire, cosa volevano dire loro e cosa voleva dire per noi quella valigia, quella fragilità nella quale chiudevamo insieme alle poche cose che avevamo, tutte le nostre speranze, tutti i nostri progetti insieme alle nostre paure.
Già, le nostre vecchie inconfessate paure  con le quali lasciavamo i nostri luoghi natii,  i nostri affetti e i nostri morti e quelle nuove che ci nascevano e con le quali venivamo accolti nei posti sconosciuti in cui arrivavamo, con gente che parlava un altro idioma e che esponeva cartelli “ affittasi a non meridionali “, per i quali tu eri solo un terùn, un napuli, un extracomunitario.
Ecco che cosa era la nostra valigia di cartone: la nostra debolezza, nostra come di tutti i poveri del mondo costretti ad emigrare per non morire d’inedia.
È strano, ma ancora oggi non amo le valige di cuoio, se viaggio lo faccio con valige di stoffa, colorate.
Ma se ho tanta roba da portarmi dietro, cosa che mi capita di rado, chiedo aiuto e pazienza ancora alla mia vecchia valigia di cartone.


  da "Dalla cenere di una quercia" Neos edizioni 2005